Quando incontrò gli alieni Beppo Sgorbion stava rientrando a casa in bicicletta. Mezzo ubriaco come tutte le sere dopo essere stato all’osteria del paese. C’era una fitta nebbia e lui pedalava sulla strada dell’argine. Viveva da solo in una vecchia casa colonica posta dentro una golena chiusa e aveva ancora un paio di chilometri di strada da fare.
Vide una grande luce bianca in mezzo alla nebbia, fortissima. Pensò ad un grosso camion, si buttò sul ciglio che quasi scivolò giù dall’argine. Rimase per qualche minuto fermo al bordo della strada, sostenendosi con i piedi, in una condizione di scarsa stabilità. Teneva le mani strette sul manubrio, aspettando che il mezzo avanzasse, invece la luce rimaneva ferma davanti a lui. La nebbia e l’intensità della luce gli impedivano di capire che cosa diavolo ci fosse. Pensò che il camion si fosse bloccato. Scese dalla bicicletta con difficoltà e avanzò spingendola a mano. Barcollava e per non cadere si appoggiava alla bicicletta. Non procedeva esattamente in linea retta.
Non dovette camminare per molto per vederla. Grigia di metallo lucente, emetteva una forte luce bianca, produceva una specie di ronzio la cui frequenza variava periodicamente. Grande, aveva forma affusolata, stava a circa due metri da terra senza muoversi.
Non era necessario essere un esperto di fantascienza o aver visto tutte le puntate di Star Trek per capire che quella era un’astronave.
Beppo Sgorbion all’inizio pensò trattarsi di allucinazioni dovute all’alcol; però il freddo, l’umidità della nebbia e lo spavento che stava provando gli stavano facendo riprendere lucidità. Una delle prime preoccupazioni che gli venne alla mente era che nessuno gli avrebbe mai creduto. Se fosse sopravvissuto a questo incontro mica poteva andare dai Carabinieri, né raccontarlo all’osteria. Già non aveva una buona reputazione in paese, ci mancava che andasse a raccontare di astronavi e marziani.
L’astronave emise un suono delicato e un portellone iniziò ad aprirsi. Ne uscirono due esseri strani, Beppe Sgorbion non fu mai capace di descriverli bene. Erano degli umanoidi, non tanto alti, con una grande testa e dei grandi occhi gialli. Avevano la tuta e i caschi da astronauti. Differentemente dagli umani avevano quattro braccia. Le mani erano composte di sole quattro dita. Gambe e piedi più o meno erano normali.
Il più alto dei due alzò una delle quattro mani come per salutare ed iniziò a parlare. La voce usciva da un piccolo altoparlante posto appena sotto al casco. La voce, non c’è nemmeno da spiegarlo, usciva con un tono metallico e irreale.
– terrestre non avere paura, grazie a questo comunicatore multi linguistico possiamo capire e parlare la tua lingua
– chi siv??
– alieni!
– grasia, l’eva capì anca me!
– veniamo da Gomon, spedizione scientifica per mappare i pianeti di questa zona dell’universo.
– Gomon, indò casso al stà?
– Lontano, ai margini di una lontana galassia.
– Galassa? Co’ la saris?
– Non puoi capire
– Vabè, me go’ d’ander a ca, av salot!
– Non puoi andare a casa. Ci servi nonostante il tuo handicap.
– Handicap??
– Si, le due braccia mancanti
– Vueter alieni siv imberiegh pu ca me! Me ag gl’ho i bras!
– Si ma solo due!
– Nueter gh’nema du, siv vueter ca gn’avì du ed pù!
– Abbiamo bisogno del tuo aiuto
– Mi an mi fid brisa ed vuetor, alieni ch’i capison al dialet…
– Attraverso il comunicatore noi capiamo tutte le le lingue della galassia
– E co vriv da mi?
– In realtà siamo degli alieni sfigati, il nostro sistema di navigazione era un modello economico, ci siamo infilati nel buco nero sbagliato e siamo finiti quaggiù, sono 3 ucron che vaghiamo dispersi
– ucron?
– si, sono circa 10 anni vostri, avevamo quasi finito le riserve di energia quando abbiamo avvistato sul vostro pianeta un gaburk
– gaburk?! E co al saris?
– una segnalazione per le astronavi della nostra confederazione, un’indicazione visibile dallo spazio che informa esserci un centro di emergenza
– indò l’aviv vist?
– quì vicino
– chi svè?? E c’me l’è fat?
– E’ come un grande “più” luminoso
– ‘sa disiv?
– Un più, grande, luminoso!
L’altro alieno, che non parlava perché non aveva il comunicatore fece con le due braccia centrali un gesto: un braccio lo tenne orizzontale e l’altro lo mise in verticale
– Ah, na crosa! A iò capì, la crosa illumineda dal santuari! E co la saris? Un signel par li astronevi?
– Lo pensavamo, invece abbiamo trovato solo una manica di pazzi che si rivolge a un essere inesistente, un gaburk falso…
– E mi co’ gh’entri?
– Ti dobbiamo prelevare e buttarti dentro al nostro motore, abbiamo rilevato che emetti grandi quantità di alkaetiol, il nostro combustibile migliore
– spetì un minut, an voj miga finir in tal vostor modor, ma pensi d’aver capì co’ av servisa!
Beppo Sgorbion si fece seguire dagli alieni fino a casa. Li condusse in cantina e gli fece vedere quattro damigiane di vino ancora piene, mai imbottigliate. Gli alieni analizzarono il contenuto e con una gioia incontenibile, almeno così parve a Beppo, che capire le espressioni degli alieni mica è facile, dissero che si trattava di alkaetiol della miglior qualità.
Beppò li guardò stupito e pensò che quei due alieni non ne capivano molto, si trattava di damigiane di un vinaccio venuto malissimo che gli avevano regalato perché smaltirlo costava di più, e che nemmeno lui aveva lo stomaco per berlo.
Gli alieni presero tutte le damigiane e lasciarono come pagamento un piccolo disco nero lucidissimo di un materiale vetroso e durissimo, ma caldo al tatto. Gli dissero che era una moneta del loro stato e con quella ci si comprava un sacco di cose sul loro pianeta, ci si poteva vivere di rendita, solo sul loro pianeta, però.
Gli alieni versarono il contenuto di metà damigiana nel serbatoio della loro astronave, salutarono alla loro maniera, risalirono a bordo, accesero i motori e, emettendo un leggero sibilo, decollarono e sparirono dalla vista in pochi istanti.
Beppo si buttò sul letto e si addormentò vestito com’era.
Alla mattina si risvegliò con il solito malumore, la bocca impastata e la testa pesante. Si alzò e andò a pisciare e mentre pisciava pensò che doveva smettere di bere, aveva incubi e allucinazioni sempre più frequenti e sempre più assurde. Doveva essere vero che l’alcol ti brucia il cervello, pensò.
– A’m son sogné gli alieni, disse ad alta voce, c’me son mis mel!
Tirò su la cerniera, strinse la cinghia, sistemò i pantaloni e mentre infilava la mano nella tasca sentì qualcosa di rotondo, liscio, caldo al tatto.