Una partita di calcio al mare, nel tardo pomeriggio, prima di andare a mangiare è un evento capitato a chiunque. Si fanno due squadre tra le persone che frequentano la stessa spiaggia, milanesi contro romani, napoletani contro il resto del mondo, figli di papà contro figli di buona donna, biondi contro mori. Si trova sempre una scusa buona per formare due squadre. Difficilmente poi ci si ricorda di quelle partitelle.
Tutto cambia quando nello stabilimento balneare ci sono dei ragazzi tedeschi e si decide di fare Italia contro Germania. In quel caso non è una partitella, no, in quel caso è subito mundial.
Erano i primi anni ottanta, un agosto caldo e afoso, una spiaggia del Tirreno a sud di Roma. Sette giovani tedeschi che passavano il tempo in mille attività atletiche decisero di sfidare un gruppo di ragazzi locali, che invece passavano il tempo al baretto del bagno, tra gelati, coca cola, juke box e corteggiamenti impacciati alle ragazze della spiaggia.
Mio cugino capeggiava il gruppetto, pensavo avrebbe rifiutato, invece accettò la sfida con entusiasmo. Purtroppo loro erano solo in sei e il settimo non si trovava.
Pur di non rinunciare alla sfida mio cugino decise di ingaggiarmi. Sapeva che non me la cavavo bene a pallone, ma piuttosto di giocare in inferiorità mi mise in squadra.
Ci trovammo mezz’ora dopo al campetto del campeggio. Il terreno non era dei migliori, le porte avevano delle reti sbrindellate, però tutto sommato si poteva giocare.
I tedeschi si presentarono perfettamente vestiti, maglie bianche e pantaloncini neri. Noi eravamo molto più raffazzonati, pantaloncini di colori varie e magliette che più o meno tiravano all’azzurro, chi blu scuro, chi celeste, chi azzurro, ma sbiadito dai troppi lavaggi.
Io fui messo terzino destro – mi raccomando – disse mio cugino – stai in difesa e se vengono dalla tua parte portagli via la palla senza troppi complimenti, anche se sono grossi tu vagli sotto!
La partita andava avanti senza troppe emozioni, si giocava quasi solo a centrocampo, i tedeschi avevano più tecnica e più prestanza, noi però ci davamo dentro. Non era certo bel calcio. Intanto qualche spettatore si era fermato attorno alla rete che recintava il campo.
A un certo punto il loro difensore percorse tutto il campo palla al piede, saltò un paio dei nostri e così me lo trovai davanti. Mi lanciai all’arrembaggio e cercai di portargli via la palla, con una spallata mi spostò di un paio di metri e poté correre verso la porta dove non ebbe difficoltà a fare goal.
Mio cugino mi lanciò una serie di improperi irripetibili.
Il gioco riprese più o meno come prima. I miei compagni volevano assolutamente pareggiare e ci davano dentro come matti, ma non ottenevano nulla. Durante una fase di nostro attacco gli avversari recuperarono un pallone e lo lanciarono in avanti. In difesa ero rimasto solo io, corsi verso il pallone che era alla mia portata. Buttalo via! – urlò qualcuno dei nostri. Allora mi preparai a tirare un calcio alla palla con tutta la forza che avevo. Presi una zolla di terreno che mi frenò il piede e invece di lanciare lontano il pallone lo passai ad un avversario che poté proiettarsi verso la nostra porta, battere il portiere e fare il goal del due a zero.
Venni insultato da tutti, mio cugino in testa. Qualcuno degli spettatori disse che era meglio cacciarmi e giocare in sei. Stavo per andare quando mio cugino si oppose imponendomi di restare in campo e minacciandomi pene corporali se avessi fatto altri svarioni.
Giocai alla morte, prendendo più caviglie che palloni, riuscendo in qualche modo a fermare gli attaccanti che si presentavano dalla mia parte.
In non so quale modo riuscimmo a segnare un goal, la cosa ci galvanizzò e fece arrabbiare i tedeschi che ci volevano tenere a zero. E così verso la fine della partita segnammo fortunosamente anche il secondo goal e pareggiammo. Dalle grida mi accorsi che intorno al campo s’erano radunate parecchie persone che tifavano per noi.
Ormai mancava poco alla fine, il pareggio a me andava benissimo, se avessimo perso mi avrebbero messo in croce per giorni e giorni. Eravamo tutti abbastanza stanchi, anche i tedeschi, molto più atletici, ma certamente meno abituati al calo afoso che ancora c’era in quel tardo pomeriggio.
Non so come mi trovai la palla tra i piedi. Non sapevo che fare, ero terrorizzato che me la potessero prendere e farci un altro goal, temevo anche di sbagliare il passaggio, nessuno che mi venisse incontro, tutti i miei compagni erano marcati. Decisi di andare in avanti, più lontano dalla nostra porta meglio era, vidi uno che mi veniva incontro come un fulmine, mi guardavo attorno, nessuno cui passarla, con una corsa tutt’altro che elegante avevo passato il centro campo ed ero quasi al limite dell’aerea avversaria. Non sapevo che fare, l’avversario mi era addosso, decisi di buttare via il pallone, con la punta del piede calciai con tutta la forza che avevo. La palla partì con una traiettoria sbilenca verso al linea di fondo roteando su se stessa. Tutto ad un tratto però cambiò direzione, con un effetto non voluto, ma spettacolare, si infilò nella porta avversaria traendo in inganno il portiere.
Rimasi basito. I miei compagni si misero a urlare “goal!, goal!, goal!, goal! fanculo crucchi di merda!”. Anche il pubblico che stava fuori urlava e applaudiva. Poi mi trovai seppellito dai miei compagni che volevano festeggiare. Mio cugino, che dopo avermi insultato per tutta la partita, mi elogiava con gli altri mettendo in risalto che ero suo cugino e che era stato lui a scegliermi per la squadra.
La partita dopo pochi minuti si concluse. Uscimmo dal campetto cantando l’Inno di Mameli.